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venerdì 20 febbraio 2015

Un Francesco ritrovato o da ritrovare?




Ha suscitato vasta eco di stampa la recente scoperta del noto medievista francese Jacques Dalarun di un codice francescano contenente un testo inedito di Tommaso da Celano, il primo biografo di Francesco di Assisi; un testo cronologicamente collocabile tra le sue due più famose biografie, la Vita prima (1229) e la Vita seconda (1248). Per comprendere la portata di questo evento può essere opportuno ricostruire sia pur brevemente il contesto storico e storiografico in cui questo manoscritto si colloca.
La Vita prima fu scritta da Tommaso da Celano su incarico di Gregorio IX; l’obiettivo del potente pontefice era offrire all’intera cristianità il volto di un santo segnato dal prodigio delle stimmate e canonizzato l’anno precedente. Gregorio IX scelse Tommaso sia per le sue note capacità letterarie sia perché aveva conosciuto Francesco personalmente, pur non essendo stato tra i suoi primissimi compagni; era entrato nell’Ordine nel 1215, forse accolto da Francesco stesso. Il Celano per adempiere al compito affidatogli dal papa attinse ai suoi personali ricordi e a quelli dei primi frati nonché agli atti del processo di canonizzazione. Il testo è diviso in tre parti: la prima riguarda la giovinezza di Francesco e i primissimi anni della fraternitas, la seconda gli ultimi due anni della sua vita e il suo transito, la terza la sua canonizzazione. È un testo è ricco di luci e ombre: per un verso è debitore della tradizione agiografica del tempo – si legga la tenebrosa descrizione della giovinezza di Francesco –, per un altro se ne distacca rivelando tratti di sorprendente modernità – notevole è l’analisi dell’evoluzione psicologica di Francesco durante il suo cammino di conversione. In ogni caso, indipendentemente da valutazioni di carattere letterario, la Vita prima costituisce una fonte insostituibile per la conoscenza di Francesco sia perché è la prima in ordine di tempo sia perché è basata su fonti ed esperienze dirette.
L’opera di Tommaso non riscosse unanimi consensi: scontentava gli assisani di cui evidenziava la durezza di cuore; il ceto mercantile di cui deplorava la ricerca di guadagno; umiliava i genitori di Francesco, ritraendoli come persone insensibili e preoccupate solo del loro ruolo sociale; l’Ordine dei Minori, del quale non evidenziava lo sviluppo prodigioso; e scontentava anche il papato perché non esaltava adeguatamente una istituzione che aveva canonizzato il frate di Assisi a tempo di record. Inoltre, anche dal punto di vista della ricostruzione biografica si presentava piuttosto lacunoso.
E così il ministro generale Crescenzo da Jesi nel Capitolo di Genova del 1244 impegnò Tommaso in una nuova biografia e chiese a tutti i frati di inviare eventuali ricordi e testimonianze scritte. Questi documenti giunsero a Crescenzo nel 1246 accompagnati da una lettera a firma di Leone, Angelo e Rufino – la cosiddetta Lettera di Greccio del 11 agosto 1246 – che si fecero in un certo senso garanti del materiale. Tommaso nel 1248 licenziò la cosiddetta Vita seconda che si componeva di due parti di diversa lunghezza: la prima, di 17 capitoli, completava il racconto della vicenda biografia di Francesco; la seconda, di 166 capitoli, era concepita come una sorta di florilegio delle virtù del santo.
Normalmente, in questi casi, le cartelle preparatorie, le minute e le bozze vengono eliminate una volta terminata l’opera; in questo caso non fu così e molti documenti inviati a Crescenzo rimasero in circolazione. È questa una vicenda di fondamentale importanza in quanto tali documenti, come diremo, furono utilizzati negli anni successivi per l’elaborazione di altri testi.
Anche questa nuova biografia non riuscì a soddisfare tutti i frati, divisi in varie fazioni. Difatti, già alla morte di Francesco nel 1226 era ormai netta nell’Ordine dei Minori la contrapposizione tra una maggioranza, indicata come comunità, che premeva per una stabilizzazione e istituzionalizzazione dell’Ordine, e una minoranza, i cosiddetti spirituali, che aspiravano a un ritorno alle primitive origini laiche del movimento francescano. Altre tensioni, inoltre, si andavano sviluppando tra frati chierici e frati laici, così come tra frati italiani e frati stranieri.
In particolare, questa seconda opera del Celano si dimostrava carente in un punto: il Capitolo di Genova del 1244 aveva stabilito che la nuova biografia avrebbe dovuto alimentare la venerazione di san Francesco, offrendo il racconto dei miracoli che aveva operato e che continuava a operare; ma questo aspetto non era stato per nulla preso in considerazione dal Celano. Per colmare questa lacuna il ministro generale Giovanni da Parma commissionò a Tommaso una terza opera. E così Tommaso si rimise al lavoro e nel 1252 scrisse il Trattato dei miracoli.
Col passare degli anni l’Ordine era andato crescendo enormemente in numero e in prestigio e si sentì il bisogno di una biografia che presentasse ai frati ormai sparsi in tutta Europa non tanto il frate Francesco quanto il santo Francesco, l’alter Christus, l’uomo insignito delle sacre stimmate inviato da Dio per sostenere la sua Chiesa. Il Capitolo di Narbona del 1260 affidò l’incarico di redigere una nuova biografia a Bonaventura da Bagnoregio, ministro generale dell’Ordine nonché illustre teologo. Bonaventura non aveva conosciuto né Francesco né i primi compagni; nato intorno al 1221 si era recato a studiare a Parigi nel 1235 – dove era rimasto fino al 1257 – e nel 1243 era entrato nell’Ordine; non poteva quindi basarsi su fonti dirette o su ricordi personali. Per scrivere la sua biografia attinse essenzialmente alla trilogia del Celano che rielaborò in chiave teologica utilizzando le sue eccelse doti di filosofo e di teologo; nacquero così nel 1262 la Leggenda maggiore e un suo sunto a uso liturgico, la Leggenda minore. La Leggenda maggiore piacque tanto che il Capitolo di Parigi del 1266 dispose la distruzione di tutte le precedenti biografie di Francesco in modo che non vi potesse essere confusione sulla corretta interpretazione della sua figura e delle sue volontà. Così la Legenda nova (il blocco di Bonaventura) diventava la biografia ufficiale di Francesco e andava a sostituire quella che assunse il nome di Legenda antiqua (il blocco del Celano).
La drastica decisione del Capitolo di Parigi incontrò l’ostilità di molti frati e in special modo degli spirituali, contrari alla piega clericale che l’Ordine ormai aveva assunto. Essi cercarono di recuperare tutto il materiale scampato alla distruzione – in particolare ciò che era rimasto delle bozze inviate a Crescenzo da Jesi nel 1246 – e lo rielaborarono dando vita a nuove legendae il cui scopo era presentare il vero spirito delle origini del movimento francescano. Si trattava quindi di biografie che non avevano il carattere dell’ufficialità – non erano scritte, cioè, su commissione come le biografie di Tommaso e Bonaventura – ed erano destinate a un circuito limitato se non addirittura clandestino. Sono testi molto disomogenei: vi riconoscono parti che sono la trascrizione fedele delle cartelle preparatorie del 1246, parti che costituiscono una rielaborazione di vari frammenti documentali e parti aggiunte ex novo. In alcuni casi gli autori inserirono nel testo la pericope «nos qui cum eo fuimus» [noi che fummo con lui] a significare polemicamente che il loro scritto, a differenza della biografia di Bonaventura, non era frutto di una operazione a posteriori eseguita a tavolino ma si basava sulle testimonianze dirette dei primi frati; una sorta di sigillo d’autenticità. La più nota tra queste biografie non ufficiali è certamente la Leggenda dei tre compagni, così detta perché nei manoscritti giunti fino a noi è preceduta dalla lettera di Leone, Angelo e Rufino del 1246; trattasi però di una denominazione impropria in quanto, come si è detto, questa lettera accompagnava tutto il materiale inviato a Crescenzo; nessuno dei tre è quindi il reale estensore del testo. L’importanza della Leggenda dei tre compagni risiede nel fatto che i primi 17 capitoli provengono sicuramente dal materiale del 1246 e quindi sono stati fonte diretta della Vita seconda; gli altri capitoli sono frutto di una aggiunta successiva, avvenuta in epoca post-bonaventuriana.
Questo è dunque il contesto storico e storiografico nel quale questo documento si inserisce. L’”Osservatore romano” del 26-27 gennaio 2015 dava notizia della scoperta di Dalarun con un articolo titolato “Il san Francesco ritrovato” a firma di Silvia Guidi; l’”Avvenire” dello stesso giorno con un articolo di Franco Cardini dal titolo “San Francesco e l’anello mancante”.  Probabilmente è ancora presto per dire se il documento ritrovato è destinato a fornire nuovi e importanti elementi di valutazione per storici e filologi. Per noi che non siamo né l’uno né l’altro può invece costituire uno stimolo a ritrovare Francesco stesso, un Francesco sepolto da secoli di retorica e di buonismo, del quale forse trascuriamo con troppa disinvoltura l’originale carica profetica e rivoluzionaria.

  

Pietro Urciuoli

giovedì 14 agosto 2014

Francesco d'Assisi secondo Ernesto Buonaiuti

Nell’imponente produzione di Ernesto Buonaiuti (1881-1946) un posto di primaria importanza occupano le opere dedicate alla storia del cristianesimo tardo medievale, un filone di ricerca avviato nel 1925 in coincidenza di un corso accademico sui rapporti tra spiritualità gioachimita e movimento francescano[1].
Si trattava di anni molto travagliati per Buonaiuti, anni nei quali si erano andati sempre più inasprendo quei contrasti con il Vaticano che sarebbero culminati con la sospensione a divinis e la scomunica expresse vitandus del 25 gennaio 1926.
Il suo Francesco d’Assisi venne pubblicato nel 1925 per le edizioni Formiggini nella collana “Profili” e come molti altri suoi lavori venne posto all’Indice dal Sant’Uffizio. Trattasi di un testo molto breve, senza pretese di rigore storico ma non per questo meramente divulgativo, il cui scopo è offrire al lettore - in linea con l’obiettivo della collana nella quale è inserito - un profilo cursorio ma essenziale del frate di Assisi[2].
L’opera di Ernesto Buonaiuti risente certamente, così come altre pubblicate in quel medesimo periodo in concomitanza del settimo centenario della morte di san Francesco, della lezione di Paul Sabatier[3]. Tuttavia ciò non sminuisce affatto il contributo del Buonaiuti che si distingue per l’originalità e la lucidità con cui vengono tratteggiati i passaggi fondamentali della vita di Francesco di Assisi.
La sua conversione, ad esempio. Per Buonaiuti «La conversione di Francesco non poteva essere l’adesione intellettuale riflessa ad una fede religiosa per lo innanzi disconosciuta. Egli non aveva mai rinnegato il simbolo del suo battesimo e non si era mai pubblicamente allontanato dalle pratiche devozionali dei suoi conterranei. Le sue esuberanze giovanili non erano nulla di più grave e di più indecoroso di tutto quello che ogni chiesa ufficialmente costituita perdona generosamente alla sua gioventù. […] Francesco si è convertito piuttosto il giorno in cui, di contro a tutto il ciarpame vuoto e pesante delle convenzioni umane, delle menzogne sociali, delle ipocrisie sanzionate, dei gretti interessi materiali che avvelenano le anime, offuscano i rapporti fraterni, stravolgono e contraffanno le leggi spontanee e primitive della vita associata, ha riguadagnato, di questa vita associata, l’economia spontanea e il tessuto elementare, nel precetto dell’amore e nel dovere del pronto, sorridente sacrificio. Quel giorno, annullando quell’artefatta inversione di valori che è alle scaturigini e alla base della associazione pubblica ed economica degli uomini, ed invertendola a propria volta, ha ritrovato la genuina gerarchia di valori che la vita cosmica impone a una creatura ragionevole che sogni attuare, nella pienezza delle sue energie specifiche, il proprio spirituale destino»[4].
Francesco realizza così, con i primi frati che si riuniscono intorno a lui, un modello di vita religiosa completamente nuovo, in grado di intercettare la diffusa domanda di genuinità evangelica del laicato del suo tempo senza per questo entrare in aperto contrasto con la Chiesa istituzionale: «Altri, prima di Francesco, avevano tentato di dare espressione concreta al disagio gravoso in cui la ibrida costituzione politico-religiosa della Chiesa, tratta dalla mole stessa dei suoi interessi e dal groviglio delle sue interferenze terrene a tutti gli adattamenti e a tutte le complicità, gettava gli spiriti più sensibili e le anime più timorate. Ma il superamento delle barriere concettuali e disciplinari, in cui la tradizione e l’istinto di conservazione cercano di tenere mortificato e frenato lo spirito fermentante della libertà cristiana, non era stato in essi deciso e trionfale. Non aveva cioè raggiunto quella stupenda condizione di assoluta e olimpica tranquillità nella quale non appare più necessario insorgere positivamente contro le forme consuetudinarie della mediocrità spirituale per abbatterle, appare invece sufficiente svuotarle di contenuto nell’atto stesso in cui le si accettano o le si tollerano»[5].
Tuttavia, nonostante i buoni propositi di Francesco e compagni, i contrasti con la gerarchia ecclesiastica non si fanno attendere. A tal proposito Buonaiuti osserva che la Chiesa istituzionale se, per un verso, ha bisogno che periodicamente nascano nuclei spontanei in grado di mostrare alla cristianità che quello evangelico non è un astratto e irrealizzabile ideale, per altro verso tende a controllarne l’espansione e l’incidenza affinché tali nuclei «non escano dalle proporzioni di minoranze infinitesimali, viventi ai margini della grande collettività esteriormente credente o non si atteggino a mentori troppo petulanti e a giudici troppo intransigenti degli accomodamenti, delle acquiescenze e delle transazioni ufficiali»[6]. E ancora: «Le insigni innovazioni della libera spiritualità cristiana nel mondo delle tradizioni e delle discipline costituite non possono acclimatarsi senza provocare l’ostilità rabbiosa e cieca del misoneismo farisaico, di cui vive la massa di tutte le istituzioni sociali. Molti, in curia, dovevano avere terribilmente a fastidio questa fraternità costituitasi intorno a Francesco, che non aveva sedi fisse e ordinamenti ben chiari; che girovagava liberamente per i comuni e le campagne d’Italia, praticando e bandendo il Vangelo in una maniera che lasciava praticamente in non cale la gerarchia, i suoi poteri e le sue consuetudini»[7].
Un contrasto che diviene insanabile negli anni della elaborazione normativa dell’Ordine dei Minori, tra il 1221 e il 1223: «Quale valore pertanto egli avrebbe potuto assegnare ai tentativi, da qualunque parte venissero, di codificare e di stilizzare in aride formule prescrittive quella che ai suoi occhi doveva restare una pura attitudine di spiriti votati all’ideale dell’universale fraternità nella pace e nella gioia? Il codice della perfezione, quale egli lo aveva vagheggiato e quale voleva fosse con pari fervore bramato dai suoi amici era, tutto, nei pochi incisi neotestamentari ch’egli aveva sottoposto all’esame sbigottito di Innocenzo III. Ogni loro ampliamento esegetico importava una depauperazione; ogni clausola di commento e di specificazione significava un abbassamento»[8]. Un cambiamento di paradigma – da fraternitas a ordo – i cui risvolti psicologici in Francesco di Assisi non sfuggono al Buonaiuti: «Attraverso le angosciose ore della sua ineffabile tragedia Francesco dovette convincersi suo malgrado che il compito di salvare senza un’ombra di concessione l’idealità che aveva alimentato il sogno della “conversione” era superiore alle sue forze; o meglio, che era al di là delle capacità ricettive della vita associata, che il suo fascino e la sua parola avevano cementato. E allora, affinché qualcosa potesse pur sopravvivere del suo iniziale programma volle riservare ad ogni costo a sé medesimo l’onere di compilare ed allestire le regole che le pressioni della curia ormai impietosamente esigevano»[9].
Il cammino della istituzionalizzazione è ormai inevitabilmente aperto e viene percorso con sempre maggiore decisione già all’indomani della morte di Francesco: «La mattina dopo la venerata salma era trasportata senza indugio, per volontà di frate Elia, ad Assisi. Cominciava la triste odissea dell’ideale francescano. Ché gli uomini san trovare un magnifico diversivo alla loro congeniale neghittosità e al loro funzionale fariseismo avvolgendo negli incensi della loro devozione le figure d’eccezione che avrebbero voluto invece unicamente trasformare e innalzare il tenore della loro vita. L’ordine, già sfuggito alla direzione effettiva di Francesco, si accingeva a battere, con ritmo accelerato, la via della consacrazione ufficiale nella chiesa e nel mondo. Francesco aveva sognato i fratelli messaggeri umili e poveri di pace e di perdono: l’ordine avrebbe innalzato dovunque le sedi stabili del suo magistero. Francesco aveva maledetto il fratello che a Bologna aveva per primo sanzionato la contaminazione della scienza con l’idealità minoritica: l’ordine sarebbe entrato a vele spiegate nell’insegnamento accademico. Francesco aveva deprecato ogni privilegio curiale: l’ordine avrebbe questuato a Roma le bolle del suo ambiguo e clandestino arricchimento. Francesco aveva prescritto la povertà dell’arredamento e della suppellettile sacra: Elia avrebbe dedicato alla sua memoria un monumento senza pari»[10].
Tutto è perduto, quindi, dell’originario messaggio di Francesco? Niente affatto. «Francesco d’Assisi aveva praticato la superiore economia dello spirito, risollevando in pieno la sublime semplicità della vita evangelica. Ma non appena la sua idealità si era concretata in una forma di vita associata la sua purezza sembrava essersi offuscata e il suo ardore impedito. I risultati dell’esperienza da Lui incarnata non sono stati per questo meno imponenti. […] I grandi maestri dell’umanità vivono immortali proprio in virtù del lento, macerante martirio a cui debbono essere sottoposti le loro aspirazioni e il loro programma, per fiorire e fruttificare sul solco arido, ingrato e tardo della vita associata»[11].
In definitiva, Buonaiuti legge nelle vicende del francescanesimo delle origini il contrasto tra Chiesa gerarchica e Chiesa spirituale, istituzione e carisma, sacerdozio e profezia, clericalismo e laicità, un contrasto che si ripropone drammaticamente uguale, nelle sue linee essenziali, a sette secoli di distanza. E proprio alle risposte che Francesco diede a questo contrasto il movimento modernista deve guardare se vuole perseguire l’obiettivo di costruire, come diremmo oggi, non tanto un’altra Chiesa quanto una Chiesa altra.
In tutto questo non sfugga, infine, una forte componente autobiografica; un modello di santità laica vissuta fuori dal tempio non poteva non esercitare un potentissimo richiamo su chi, come Buonaiuti, sentiva di appartenere alla generazione dell’esodo, una generazione protesa nello sforzo di scrollarsi di dosso il peso delle superfetazioni extra-evangeliche ereditate da un ingombrate passato: «In fondo al mio spirito c’era costantemente il presentimento istintivo che ci son trapassi storici i quali impongono alla generazione dell’esodo lunghe, penose, errabonde peregrinazioni. Ed io sentivo di appartenere ad un nucleo di precursori. Altri, dopo di me, avrebbe salutato all’orizzonte il profilo evanescente della terra promessa»[12].

Pietro Urciuoli
agosto 2014



[1] Ernesto Buonaiuti era dal 1919 professore ordinario di Storia del cristianesimo presso l’Università di Roma e sino ad allora si era dedicato alla storia del cristianesimo delle origini. Il corso tenuto nel 1925 sarebbe stato dato alle stampe molti anni più tardi, nel 1958, sulla rivista “Religio” da lui stesso fondata nel 1919 con il titolo Il messaggio gioachimita e la “religio” francescana.
[2] Con l’editore Angelo Fortunato Formiggini, suicida per protesta contro il regime fascista, Buonaiuti ebbe una fruttuosa collaborazione concretizzatasi in altre opere pubblicate nella medesima collana tra cui Gesù, Sant’Agostino, San Paolo, Tommaso d’Aquino e, per la collana “Medaglie”, Alfred Loisy. Sempre nel 1925 Ernesto Buonaiuti pubblicò altri lavori su Francesco d’Assisi e sul francescanesimo: tra questi Il settimo centenario francescano in “Rivista d’Italia” e Origini cristiane e movimento francescano in “Ricerche Religiose”. La biografia di Francesco di Assisi del Buonaiuti è stata ristampata nel 1997 dalle Edizioni Biblioteca Francescana, con introduzione di Sandra Migliore.
[3] La Vie de Saint François d’Assise pubblicata a Parigi nel 1894 da Paul Sabatier rappresenta sicuramente una pietra miliare nella storia della storiografia francescana. Il Sabatier ha inoltre il merito di aver avviato quell’analisi storico-filologica delle fonti biografiche disponibili su Francesco d’Assisi che va sotto il nome di “questione francescana”.
[4] E. Buonaiuti, Francesco d’Assisi, Ed. Formiggini, Roma 1925, p. 26.
[5] Ivi, p. 30.
[6] Ivi, p. 33.
[7] Ivi, p. 60.
[8] Ivi, p. 63.
[9] Ivi, p. 66.
[10] Ivi, p. 75.
[11] Ivi, p. 77.
[12]E. Buonaiuti, Il pellegrino di Roma. La generazione dell’esodo, Ed. Darsena, Roma 1945, p. 111.

lunedì 21 luglio 2014

A proposito di scomuniche

di Franco Barbero, da Adista Segni Nuovi, n. 28/2014

La storia ha ben documentato una sorprendente molteplicità di usi e di abusi dell’istituzione ecclesiastica cattolica. Come cristiano, parto dal fatto che il “Dio benedicente” e la “Chiesa maledicente” spesso sono realtà compresenti. Tra Dio e Chiesa non mi aspetto né continuità né coincidenza territoriale. Questa constatazione è stata sempre per me estremamente liberante. L’alterità di Dio rispetto alla Chiesa mi ha preservato da lacerazioni insanabili quando ho constatato dissonanze, estraneità, tradimenti del Vangelo nella e della istituzione ecclesiastica. Per me “credere” nel Dio di Gesù è gustare la “benedizione creaturale”. Questa è la prima e l'ultima parola della mia fede. Come creature, stiamo tutti nella benedizione: possiamo non riconoscerla, ma essa ci avvolge e ci “assedia”.
Guardo il mondo e la mia piccola vita da questa “finestra”. Senza questa radicale fiducia nella preveniente ed incancellabile realtà del rapporto di benedizione, che circola, anima e percorre tutte le arterie del creato, andrei diritto al suicidio assistito...
Dio non scomunica mai, non si disconnette mai: noi possiamo “chiudere” e fuggire, ma il Suo amore non verrà mai meno. Per questo, molti cristiani e cattolici hanno assaporato la benedizione anche nei giorni in cui arrivava loro la “maledizione-scomunica” ecclesiastica. I miei più saggi maestri li ho sempre trovati non tra i prudenti progressisti, ma tra i censurati e gli estromessi, gli scomunicati, le “streghe”, gli “eretici”, le cattive compagnie.
Mi sono rallegrato delle chiare parole di papa Francesco rispetto ai mafiosi e ritengo che in certi casi estremi la scomunica possa essere una dolorosa necessità (contro i commercianti di carne umana, contro l'impero delle armi...), ma finché resta prerogativa di una autorità sganciata da un confronto comunitario, essa rimane, a mio avviso, esposta all'arbitrio di un vescovo (come nel caso della fondatrice di Noi Siamo Chiesa). Ma c'è di peggio. Oggi la scomunica non manda più al rogo, ma ha assunto un volto aggiornato. Tramite la scomunica o la defenestrazione si mantiene in mani gerarchiche la definizione del “territorio ecclesiale”.
La mia vicenda personale, per quanto irrilevante, mi ha condotto ad alcune riflessioni. La gerarchia scatta, fa pressione, lusinga, minaccia, mette sotto processo e poi scomunica quando vengono messi in crisi il sistema sacral-gerarchico, l'apparato strutturale e la codificazione dogmatica o morale. Nei processi ecclesiastici subiti non mi venne mai chiesto altro che allinearmi ed obbedire. Gli “inviati speciali” da parte della gerarchia usarono tutti i toni possibili. Al mio “persistere nell’errore” conclusero: «Come osi tu, che non conti niente, ergerti contro il monumento cristologico e trinitario della intera tradizione cristiana?». Oppure: «Come puoi incoraggiare il vizio omosessuale?».
Se non sei funzionale alla compattezza istituzionale e se non ti accontenti di criticare qualche aspetto negativo marginale, lì finiscono le tue fortune nell’istituzione ecclesiastica. Credere in Dio e appartenere ad una Chiesa, senza rassegnarti all’obbedienza, costituisce un percorso pericoloso, che porta alla marginalizzazione, all'oblio, alla scomparsa dai “video ecclesiali”. A questo punto o porti nel tuo cuore e nelle tue viscere il calore della “benedizione” di Dio o rischi di imprigionarti nella rabbia, nello sconforto, nell'abbandono di un ministero che dà ossigeno ai tuoi giorni.
Papa Francesco non ha per ora rotto questa catena. La sua tragica ambiguità, a mio avviso, sta in questa doppiezza: scomunica i mafiosi, ma scomunica anche i teologi, le teologhe, i credenti che cercano vie nuove di fedeltà al Vangelo nel mondo di oggi. A mio avviso, se non si rompe questa pratica inquisitoriale, non si va al nodo del problema. Senza la libertà di ricerca, senza la “disobbedienza”, senza nuovi linguaggi la nostra Chiesa esaurirà presto il “vento di speranza e di empatia” che sta soffiando. Qui si tocca l'impianto strutturale e, senza questa “conversione”, nella nostra Chiesa – che noi scomunicati continuiamo ad amare – si ripeteranno per secoli formule venerande confondendo il rispetto e l’amore della tradizione con il tradizionalismo.
Non siamo chiamati/e a ripetere, ma a riscoprire, a dire oggi l’indicibile ed affascinante mistero di Dio.


* Per anni animatore della CdB di Pinerolo; nel 2003 dimesso, senza processo, dallo stato clericale per aver impartito, in chiesa, benedizioni a coppie omosessuali

giovedì 19 giugno 2014

Il limbo, conseguenza "pastorale di una credenza problematica: il peccato originale

di Jacques Neyrinck
in “www.baptises.fr” del 19 giugno 2014 (traduzione: www.finesettimana.org)
Alcuni brani tratti dal libro di Jacques Neyrinck, Le savoir-croire, ed. Salvator, giugno 2014.


Il Catechismo della Chiesa cattolica, promulgato nel 1992 e venduto in 700 000 copie in Francia,  definisce così il peccato originale: “Con il suo peccato Adamo, in quanto primo uomo, ha perso la  santità e la giustizia originali che aveva ricevuto da Dio non solo per sé, ma per tutti gli umani. Alla  loro discendenza, Adamo ed Eva hanno trasmesso la natura umana ferita dal loro primo peccato,  quindi privata della santità e giustizia originali. Tale privazione è chiamata “peccato originale”.”
In realtà, nella Bibbia il termine peccato originale non viene menzionato neanche una volta. Non si  tratta quindi di un articolo di fede, ma di una credenza, basata inizialmente su un errore di  traduzione, che si è trasformata in certezza per due millenni. (…)
La formalizzazione del concetto deriva da un'interpretazione dell'epistola ai Romani, di Paolo di  Tarso, da parte di Agostino d'Ippona. Lavorava sulla Vulgata, cioè sulla traduzione in latino del  Nuovo Testamento, originariamente redatto in greco. Secondo quella versione, “tramite Adamo, nel  quale tutti hanno peccato, il peccato è entrato nel mondo, e con il peccato la morte, e così la morte  si è propagata in tutti gli uomini”, mentre la traduzione corretta sarebbe stata: “tramite Adamo, il  peccato è entrato nel mondo, e con il peccato la morte, e così la morte si è propagata in tutti gli  uomini, per il fatto che tutti hanno peccato”. Su questo errore di traduzione si è propagata una  credenza ad un peccato ereditario. (…)
Si scopre l'incoerenza del peccato originale soffermandosi su una prima credenza che ne è derivata,  quella del limbo. Per Agostino, non esiste alcun piano intermedio tra il paradiso e l'inferno: le anime dei bambini non battezzati sono destinate all'inferno. Secondo questa dottrina radicale, bisognava  procedere al battesimo immediato di tutti i bambini, e questa abitudine si è mantenuta fino ad un  passato recentissimo. Invece di una cerimonia che segna l'entrata nella Chiesa di un nuovo cristiano, il battesimo è stato per molto tempo un rito magico per salvare dall'inferno all'ultimo minuto. In  caso di parti difficile, si battezzava immediatamente il neonato che stava morendo. Il senso reale del sacramento fu pervertito a causa di quella credenza.
Per una reazione molto comprensibile a quella dottrina feroce, i teologi del basso Medio Evo  inventarono il limbo dei bambini non battezzati: le loro anime non sarebbero incorse nei tormenti  dell'inferno ma sarebbero state private della felicità del paradiso. Secondo quei teorici del  cristianesimo, benché quei neonati fossero innocenti di qualsiasi peccato personale, la loro natura  fondamentalmente viziata li rendeva impropri alla visione beatifica del paradiso. Il limbo dei  neonati costituì la risposta teologica al problema del destino di quegli innocenti che, senza aver  meritato l'inferno, erano tuttavia esclusi dal paradiso. Bisognava pur metterli da qualche parte. Ma  quella privazione li faceva comunque soffrire? Tommaso d'Aquino (1225-1274) concluse di no,  spiegando faticosamente che l'uomo non soffre per il fatto di non poter volare. Contorsione 
intellettuale che svela l'aberrazione dell'ipotesi iniziale.
Si poneva lo stesso problema insolubile con i giusti nati prima di Cristo. Abramo, Mosè, Davide,  Elia, tutti i patriarchi e i profeti, infettati dal peccato originale, non possono entrare in paradiso  nonostante i loro meriti evidenti. È stato quindi necessario creare un limbo supplementare per loro.  Da qui il plurale “limbi” [ndr.: in francese si usa il termine al plurale]. Se si considera anche il purgatorio, altra invenzione di teologi creativi nel XII secolo, più il paradiso e l'inferno, ne risulta  un aldilà di cinque piani. Se consideriamo il Simbolo apostolico, Gesù visitò tre giorni prima di  Pasqua “gli inferi”, altro concetto proprio dell'Antichità in cui erano raccolti tutti i defunti prima  dell'organizzazione dell'aldilà cristiano, ossia un sesto piano che accoglieva tutti fino a che Pasqua  non costituì l'evento fondativo dell'edificio di cinque piani. Tutto questo armamentario 
concentrazionario non ha alcun senso, perché presuppone che l'eternità sia costituita da un tempo  illimitato con una cesura nell'anno 30 per la liquidazione degli “inferi”.
Alla fine, il 20 aprile 2007, la commissione teologica internazionale della Chiesa cattolica romana  ha dichiarato che il limbo riflette una visione troppo restrittiva della Salvezza e non può essere  considerato come una verità di fede. E la credenza si è spenta da sola nella società civile  contemporanea. Infatti per un contemporaneo, nessuno può essere sanzionato se non per una  violazione alla legge civile da lui stesso commessa. Un contemporaneo non può più aderire ad una fede screditata da una credenza assurda, odiosa e incoerente.
Sarebbe stato logico che quella commissione risalisse dalla credenza derivata a quella del peccato originale. Ma era troppo chiederle di rinunciare a quella credenza cardine del cristianesimo. Il Catechismo “spera che ci sia una via di salvezza per i bambini morti senza battesimo”. Non va oltre, perché significherebbe rinunciare alla credenza al peccato originale. Non è possibile rivedere la  dottrina su un punto che è diventato essenziale, per paura di intaccare la credenza all'infallibilità del  Vaticano. Molti passi del Vangelo mettono in scena un bambino di cui Gesù dice: “Se non  diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli”. Come avrebbe potuto quel  bambino, non battezzato per definizione, essere presentato come un esempio di innocenza, se fosse  stato realmente infettato dal peccato originale?

giovedì 5 giugno 2014

Una brutta sorpresa: per Bergoglio Calvino è un "boia spirituale"

di Paolo Ricca in “Riforma” - settimanale delle chiese evangeliche battiste metodiste e Valdesi – del 6 giugno 2014


Una brutta sorpresa. Davvero brutta. E un’inattesa delusione. Sorpresa e delusione suscitate da  alcune  pagine dell’attuale pontefice sulla Riforma protestante, che purtroppo riproducono i più  logori e grossolani clichés polemici usati dalla Controriforma in tempi lontani per diffamare il  protestantesimo. Mai ci saremmo aspettati di vederli riproposti dal papa «venuto da lontano». 

Queste pagine – già segnalate su Riforma del 16 maggio scorso da una lettera di Carlo Papini, a p.  11 – riproducono una conferenza tenuta dall’allora arcivescovo Bergoglio in Argentina nel 1985, dal titolo: «Chi sono i gesuiti», pubblicata ora in italiano, insieme ad altri due saggi, in un volumetto  uscito nel maggio di quest’anno e preceduto da una introduzione di Antonio Spadaro, direttore di  Civiltà Cattolica (la nota rivista dei gesuiti), già autore di un’ampia e istruttiva intervista all’attuale  pontefice (1).
Ora secondo p. Spadaro, «i due casi concreti» esaminati da Bergoglio nella conferenza ora citata,  cioè la Riforma protestante e la missione latino-americana, «sono due ricchissimi affreschi» (p. 13), i quali «illuminano il lettore sul modo di procedere di Bergoglio come pontefice» (p. 11) – modo di  procedere che, sempre secondo il direttore di Civiltà Cattolica è «fondato su due pilastri: la realtà e  il discernimento» (p. 14). Ora io non so bene che cosa il p. Spadaro e, con lui, papa Francesco  intendano per «realtà». Sono però certo che la «realtà» della Riforma, per quel poco che la conosco, è completamente diversa da quella «affrescata» da Jorge M. Bergoglio.
È vero che le sue pagine risalgono a quasi 30 anni fa. Ma sono state pubblicate tali e quali 30 anni  dopo, in italiano, nel maggio di quest’anno, senza la minima modifica o nota esplicativa, e anzi  presentate come un «ricchissimo affresco».
Sentite quello che il papa, quand’era ancora arcivescovo, diceva (speriamo che ora non lo dica né lo pensi più) di Calvino, che, secondo lui, è molto peggiore di Lutero. Lutero era eretico, e l’eresia è  «un’idea buona impazzita» (p. 22) (2). Ma Calvino, oltre che eretico, è stato anche scismatico, e lo è stato in tre diverse aree: l’uomo, la società, la chiesa. Nell’uomo, Calvino provoca addirittura due  scismi. Il primo è quello «tra la ragione e il cuore», da cui nasce «lo squallore calvinista» (p. 23). Il  secondo avviene all’interno della stessa ragione, «tra la conoscenza positiva e la conoscenza  speculativa», con danni irreparabili a «tutta la tradizione umanistica» (p. 23). Nella società, Calvino  provoca lo scisma tra le classi borghesi, che egli privilegia «come apportatrici di salvezza» (p. 25),  e le corporazioni dei mestieri che rappresentano «la nobiltà del lavoro». Calvino sarebbe promotore  di «un’internazionale della borghesia» e, come tale, «il vero padre del liberalismo» (p. 26). Nella  chiesa, infine, Calvino provoca lo scisma peggiore: «la comunità ecclesiale viene ridotta a una  classe sociale» – quella borghese – e «Calvino decapita il popolo di Dio dell’unità con il Padre. 
Decapita tutte le confraternite dei mestieri privandole dei santi. E, sopprimendo la messa, priva il  popolo della mediazione in Cristo realmente presente» (p. 32). Insomma: Calvino è un vero boia  spirituale, che decapita tutto quello che può!
Stento a credere che l’attuale pontefice pensi di Calvino e della Riforma queste cose, che non  stanno né in cielo né in terra e che nessuno storico cattolico – almeno tra quelli che conosco e leggo  – dice più da molto tempo. E dato che i gesuiti, quando nacquero, si diedero come compito, oltre  alla missione tra i pagani, anche quello di combattere con ogni mezzo il protestantesimo – come  effettivamente è avvenuto – allora, se il protestantesimo che hanno combattuto è quello «affrescato» da Bergoglio, devono sapere che hanno combattuto un protestantesimo fantasma, mai esistito, un  puro idolo polemico creato solo dalla loro fantasia, che poco o nulla aveva a che fare con la famosa  «realtà», che pure volevano assumere come «pilastro» del loro «modo di procedere».
Ma non è tutto. Sentite quello che Bergoglio diceva (speriamo che ora non lo dica né lo pensi più)  delle conseguenze della Riforma. Secondo lui «a partire dalla posizione luterana, se siamo coerenti, restano solo due possibilità fra cui scegliere nel corso della storia: o l’uomo si dissolve nella sua  angoscia e non è niente (ed è la conseguenza dell’esistenzialismo ateo), o l’uomo, basandosi su  quella medesima angoscia e corruzione, fa un salto nel vuoto e si auto decreta superuomo (è  l’opzione di Nietzsche) … Un simile potere [quello vagheggiato da Nietzsche], come ultima ratio,  implica la morte di Dio. Si tratta di un paganesimo che, nei casi del nazismo e del marxismo,  acquisterà forme organizzate» (p. 34). Tutto questo «a partire dalla posizione luterana», che  evidentemente – secondo queste pagine di Bergoglio – è la causa prima, anche se remota, delle cose peggiori accadute in Occidente, compresa la secolarizzazione, la «morte di Dio», e i vari  totalitarismi che hanno infestato la storia moderna dell’Europa. Insomma, è la vecchia tesi della Controriforma: la Riforma protestante vista come sorgente di tutti i mali, o meglio di tutti quelli che la chiesa di Roma considera «mali».
Mi chiedo come sia possibile avere oggi ancora (o anche 30 anni fa) una visione così deformata,  distorta, travisata e sostanzialmente falsa della Riforma protestante. È una visione con la quale non  solo non si può iniziare un dialogo, ma neppure una polemica: non ne vale la pena, perché è troppo  lontana e difforme dalla «realtà». Una cosa è certa: a partire da una visione del genere, una  celebrazione ecumenica del 500° anniversario della Riforma, nel 2017, appare letteralmente  impossibile.

Paolo Ricca

(1) Jorge Mario Bergoglio, Chi sono i gesuiti, EMI, Bologna 2014 (la prima edizione, apparsa a  Buenos Aires, è del 1987; una seconda edizione è apparsa in Spagna nel 2013).
(2) Quindi – lo dico in nota – noi valdesi, «eretici» da otto secoli, siamo, insieme a tutti gli altri  protestanti, seguaci di «un’idea buona impazzita», cioè, in qualche misura, tutti pazzi.

mercoledì 4 giugno 2014

Istigazione a riflettere n. 7

La Chiesa mi ha trattato severamente. Mi è stata tolta la cattedra all'Università di Granada dalla sera alla mattina, senza una spiegazione. Non sapevo nemmeno che in Vaticano era in corso un processo contro di me. Più volte ho chiesto il perchè di questa decisione ma non ho mai ricevuto risposta.
Sono caduto in depressione; otto anni senza poter dormire. Poi ho lasciato il mio ordine religioso e ho scelto di non andare alla ricerca di qualche diocesi dove potermi incardinare e di vivere da laico.
Ma nonostante questo io vi dico: se per voi la Chiesa è un impedimento alla vostra fede e alla vostra vocazione sono problemi vostri non della Chiesa.
Perchè dico così?
Ecco. Io oggi sono felice, sono più felice di quando ero un bambino. E lo sono perchè credo in Gesù, che dà un senso alla mia vita. Io non so come sono, se sono giusto o se sono sbagliato. Non so nemmeno se mi sono perso. Mi accetto per quello che sono e sono felice perchè credo in Gesù.
E se io posso credere in Gesù, oggi, lo devo alla Chiesa, a questa Chiesa, che me lo ha trasmesso.

Josè Maria Castillo
CdB San Paolo, 4 giugno 2014

martedì 20 maggio 2014

L'identità cristiana e i diritti della persona

Piero Stefani, in Koinonia-forum n. 389/2014


In vista delle prossime elezioni (in parte anche amministrative) l’Arcivescovo di Ferrara – Comacchio Luigi Negri  ha rivolto ai «carissimi figli e figlie» della sua diocesi un messaggio.  La sua  prima parte, quella fondante, afferma:

”Come Vescovo la mia prima inderogabile missione è l’annuncio del Vangelo quale via della libertà, della responsabilità e della salvezza. Nel Vangelo che vi debbo annunciare è contenuta anche una precisa concezione dell’uomo e di tutta la sua realtà, che costituisce il nucleo portante della Dottrina Sociale che la Chiesa ha sempre proclamato e testimoniato.
Si tratta dei “principi non negoziabili” che sono il patrimonio di ogni persona, perché inscritti nella coscienza morale di ciascuno, ed in particolare costituiscono il criterio ineludibile per i giudizi e le scelte temporali e sociali del cristiano. Li elenco sinteticamente: la dignità della persona umana, costituita ad immagine e somiglianza di Dio, e quindi irriducibile ad ogni condizionamento sia di carattere personale che sociale; la sacralità della vita dal concepimento alla morte naturale, indisponibile a tutte le strutture ed a tutti i poteri; i diritti e le libertà fondamentali della persona: libertà religiosa, della cultura e dell’educazione; la sacralità della famiglia naturale, fondata sul matrimonio, sulla legittima unione cioè fra un uomo e una donna, responsabilmente aperta alla paternità e alla maternità; la libertà di intrapresa culturale, sociale, e anche economica in funzione del bene della persona e del bene comune; il diritto ad un lavoro dignitoso e giustamente retribuito, come espressione sintetica della persona umana; l’accoglienza ai migranti nel rispetto della dignità della loro persona e delle esigenze del bene comune; lo sviluppo della giustizia e la promozione della pace; il rispetto del Creato.
Ecco l’orizzonte immutabile di ogni giudizio, e del conseguente impegno del cristiano nella società, ma anche la chiave di valutazione delle persone, dei raggruppamenti partitici e dei rispettivi programmi, affinché si favorisca la promulgazione di leggi coerenti con le fondamentali esigenze della dignità umana".

   Che la Chiesa abbia sempre proclamato e testimoniato tutto ciò è un palese falso storico su cui non vale la pena soffermarsi. Più interessante è chiedersi chi sono coloro a cui Negri si rivolge con l’appellativo di «figli e figlie»: sono solo i credenti praticanti?  Se fosse così sarebbe coerente richiamarsi ai diritti  della persona creata a immagine e somiglianza di Dio; se invece quella qualifica si estende a ogni residente nella sua diocesi bisognerebbe far riferimento ai diritti umani che hanno un’altra base fondativa (qualunque essa sia)  e non già a quelli della persona (per questa capitale differenza vedi D. Menozzi, Chiesa e diritti umani, il Mulino, Bologna 2012).
   L’uso dell’ormai anacronistica espressione di «valori non negoziabili» (da cui ha preso apertamente le distanze papa Francesco) lascia presupporre che Negri compia un’indebita sovrapposizione tra i diritti umani e quelli della persona. È evidente che  anche il cattolico  impegnato in politica crede che la persona umana  sia stata creata a immagine e somiglianza di Dio; ma ciò non intacca il fatto che questo suo convincimento non vada direttamente assunto come un argomento a sostegno di  decisioni pubbliche che riguardano pure individui o gruppi che non condividono la sua fede ma vivono, al pari di lui, in una società pluralista. In un contesto pubblico le argomentazioni devono essere di altra natura e vanno articolate, pur all’interno di una varietà di opzioni, facendo appello a un linguaggio condiviso (per esempio i principi della Costituzione italiana, testo che non nomina mai Dio).
  Sul piano della riflessione interna alla comunità ecclesiale molte perplessità provoca la saldatura (che in  Negri sembra essere addirittura una fusione) tra il Vangelo e la dottrina sociale della Chiesa, espressione, quest’ultima, di un magistero storico nato solo a fine Ottocento in larga misura per rispondere a istanze sollevate dai movimenti socialisti (in precedenza la condizione operaia non sollevava, nella maggior parte dei cattolici, più problemi di quanto, nel corso del Medioevo, l’avesse fatto la condizione dei servi della gleba).
  In realtà il cortocircuito in cui cade mons. Negri è evidente là dove egli prospetta il Vangelo  non come una via per morire a se stessi  per  rinascere in Gesù Cristo, ma come fattore che costruisce identità collettive. O, più esattamente, la procedura è portata avanti fino al punto da affermare che proprio la rinascita in Gesù Cristo si presenta come  una via per istituire un’identità collettiva omogenea nella forma ad altre identità, ma distinta da queste ultime in base a valori propri che però sono presentati come se fossero comuni. Solo una posizione del genere può infatti spiegare, dal punto di vista sia logico sia spirituale, come l’Arcivescovo (ma non sarebbe ora di abolire questo “Arci” nobiliar-feudale?), nella sua recente lettera pastorale “Collaboratori della  vostra gioia” possa chiamare in causa un brano di Paolo radicalmente anti-identitario (di passaggio, è l’unica citazione biblica dell’intero documento) proprio come fondamento di una supposta identità storico-collettiva del popolo cristiano: «Il primo valore che richiamo in questa mia lettera (…) è il recupero dell’identità cristiana come identità di popolo. Il popolo a cui faccio riferimento  non è quello che ha la sua radice nella natura, nella storia, nella tradizione, nella cultura, nelle condizioni economiche, politiche e sociali, elementi tutti importanti ma non determinanti. Penso piuttosto alla frase di San Paolo: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Gesù Cristo” (Gal 3,28)».


Piero Stefani