Ha suscitato vasta eco di stampa la recente scoperta
del noto medievista francese Jacques Dalarun di un codice francescano
contenente un testo inedito di Tommaso da Celano, il primo biografo di
Francesco di Assisi; un testo cronologicamente collocabile tra le sue due più famose
biografie, la Vita prima (1229) e la Vita seconda (1248). Per comprendere la
portata di questo evento può essere opportuno ricostruire sia pur brevemente il
contesto storico e storiografico in cui questo manoscritto si colloca.
La Vita
prima fu scritta da Tommaso da Celano su incarico di Gregorio IX;
l’obiettivo del potente pontefice era offrire all’intera cristianità il volto
di un santo segnato dal prodigio delle stimmate e canonizzato l’anno
precedente. Gregorio IX scelse Tommaso sia per le sue note capacità letterarie sia
perché aveva conosciuto Francesco personalmente, pur non essendo stato tra i
suoi primissimi compagni; era entrato nell’Ordine nel 1215, forse accolto da
Francesco stesso. Il Celano per adempiere al compito affidatogli dal papa
attinse ai suoi personali ricordi e a quelli dei primi frati nonché agli atti
del processo di canonizzazione. Il testo è diviso in tre parti: la prima
riguarda la giovinezza di Francesco e i primissimi anni della fraternitas, la seconda gli ultimi due
anni della sua vita e il suo transito, la terza la sua canonizzazione. È un
testo è ricco di luci e ombre: per un verso è debitore della tradizione
agiografica del tempo – si legga la tenebrosa descrizione della giovinezza di
Francesco –, per un altro se ne distacca rivelando tratti di sorprendente modernità
– notevole è l’analisi dell’evoluzione psicologica di Francesco durante il suo
cammino di conversione. In ogni caso, indipendentemente da valutazioni di
carattere letterario, la Vita prima costituisce una fonte
insostituibile per la conoscenza di Francesco sia perché è la prima in ordine
di tempo sia perché è basata su fonti ed esperienze dirette.
L’opera di Tommaso non riscosse unanimi
consensi: scontentava gli assisani di cui evidenziava la durezza di cuore; il
ceto mercantile di cui deplorava la ricerca di guadagno; umiliava i genitori di
Francesco, ritraendoli come persone insensibili e preoccupate solo del loro
ruolo sociale; l’Ordine dei Minori, del quale non evidenziava lo sviluppo
prodigioso; e scontentava anche il papato perché non esaltava adeguatamente una
istituzione che aveva canonizzato il frate di Assisi a tempo di record. Inoltre,
anche dal punto di vista della ricostruzione biografica si presentava piuttosto
lacunoso.
E così il ministro generale Crescenzo da Jesi
nel Capitolo di Genova del 1244 impegnò Tommaso in una nuova biografia e chiese
a tutti i frati di inviare eventuali ricordi e testimonianze scritte. Questi documenti
giunsero a Crescenzo nel 1246 accompagnati da una lettera a firma di Leone,
Angelo e Rufino – la cosiddetta Lettera
di Greccio del 11 agosto 1246 – che si fecero in un certo senso garanti del
materiale. Tommaso nel 1248 licenziò la cosiddetta Vita seconda che si componeva di due parti di diversa lunghezza: la
prima, di 17 capitoli, completava il racconto della vicenda biografia di
Francesco; la seconda, di 166 capitoli, era concepita come una sorta di
florilegio delle virtù del santo.
Normalmente, in questi casi, le cartelle
preparatorie, le minute e le bozze vengono eliminate una volta terminata
l’opera; in questo caso non fu così e molti documenti inviati a Crescenzo rimasero
in circolazione. È questa una vicenda di fondamentale importanza in quanto tali
documenti, come diremo, furono utilizzati negli anni successivi per
l’elaborazione di altri testi.
Anche questa nuova biografia non riuscì a
soddisfare tutti i frati, divisi in varie fazioni. Difatti, già alla morte di
Francesco nel 1226 era ormai netta nell’Ordine dei Minori la contrapposizione
tra una maggioranza, indicata come comunità,
che premeva per una stabilizzazione e istituzionalizzazione dell’Ordine, e una
minoranza, i cosiddetti spirituali,
che aspiravano a un ritorno alle primitive origini laiche del movimento
francescano. Altre tensioni, inoltre, si andavano sviluppando tra frati
chierici e frati laici, così come tra frati italiani e frati stranieri.
In particolare, questa seconda opera del Celano
si dimostrava carente in un punto: il Capitolo di Genova del 1244 aveva
stabilito che la nuova biografia avrebbe dovuto alimentare la venerazione di
san Francesco, offrendo il racconto dei miracoli che aveva operato e che
continuava a operare; ma questo aspetto non era stato per nulla preso in
considerazione dal Celano. Per colmare questa lacuna il ministro generale
Giovanni da Parma commissionò a Tommaso una terza opera. E così Tommaso si
rimise al lavoro e nel 1252 scrisse il Trattato
dei miracoli.
Col passare degli anni l’Ordine era andato
crescendo enormemente in numero e in prestigio e si sentì il bisogno di una
biografia che presentasse ai frati ormai sparsi in tutta Europa non tanto il frate Francesco quanto il santo Francesco, l’alter Christus, l’uomo insignito delle sacre stimmate inviato da
Dio per sostenere la sua Chiesa. Il Capitolo di Narbona del 1260 affidò
l’incarico di redigere una nuova biografia a Bonaventura da Bagnoregio, ministro
generale dell’Ordine nonché illustre teologo. Bonaventura non aveva conosciuto
né Francesco né i primi compagni; nato intorno al 1221 si era recato a studiare
a Parigi nel 1235 – dove era rimasto fino al 1257 – e nel 1243 era entrato
nell’Ordine; non poteva quindi basarsi su fonti dirette o su ricordi personali.
Per scrivere la sua biografia attinse essenzialmente alla trilogia del Celano che
rielaborò in chiave teologica utilizzando le sue eccelse doti di filosofo e di
teologo; nacquero così nel 1262 la
Leggenda maggiore e un suo sunto a uso
liturgico, la Leggenda minore. La Leggenda maggiore piacque tanto che il Capitolo
di Parigi del 1266 dispose la distruzione di tutte le precedenti biografie di
Francesco in modo che non vi potesse essere confusione sulla corretta
interpretazione della sua figura e delle sue volontà. Così la Legenda nova (il blocco di Bonaventura) diventava
la biografia ufficiale di Francesco e andava a sostituire quella che assunse il
nome di Legenda antiqua (il blocco
del Celano).
La drastica decisione del Capitolo di Parigi incontrò
l’ostilità di molti frati e in special modo degli spirituali, contrari alla piega clericale che l’Ordine ormai aveva assunto.
Essi cercarono di recuperare tutto il materiale scampato alla distruzione – in
particolare ciò che era rimasto delle bozze inviate a Crescenzo da Jesi nel
1246 – e lo rielaborarono dando vita a nuove legendae il cui scopo era presentare il vero spirito delle origini
del movimento francescano. Si trattava quindi di biografie che non avevano il
carattere dell’ufficialità – non erano scritte, cioè, su commissione come le
biografie di Tommaso e Bonaventura – ed erano destinate a un circuito limitato
se non addirittura clandestino. Sono testi molto disomogenei: vi riconoscono
parti che sono la trascrizione fedele delle cartelle preparatorie del 1246,
parti che costituiscono una rielaborazione di vari frammenti documentali e
parti aggiunte ex novo. In alcuni casi gli autori inserirono nel testo la
pericope «nos qui cum eo fuimus» [noi che fummo con lui] a significare
polemicamente che il loro scritto, a differenza della biografia di Bonaventura,
non era frutto di una operazione a posteriori eseguita a tavolino ma si basava sulle
testimonianze dirette dei primi frati; una sorta di sigillo d’autenticità. La
più nota tra queste biografie non ufficiali è certamente la Leggenda dei tre compagni, così detta perché nei manoscritti giunti fino a noi è preceduta
dalla lettera di Leone, Angelo e Rufino del 1246; trattasi però di una
denominazione impropria in quanto, come si è detto, questa lettera accompagnava
tutto il materiale inviato a Crescenzo; nessuno dei tre è quindi il reale
estensore del testo. L’importanza della Leggenda
dei tre compagni risiede nel fatto che i primi 17 capitoli provengono
sicuramente dal materiale del 1246 e quindi sono stati fonte diretta della Vita seconda; gli altri capitoli sono
frutto di una aggiunta successiva, avvenuta in epoca post-bonaventuriana.
Questo è dunque il contesto storico e storiografico
nel quale questo documento si inserisce. L’”Osservatore
romano” del 26-27 gennaio 2015 dava notizia della scoperta di Dalarun con
un articolo titolato “Il san Francesco
ritrovato” a firma di Silvia Guidi; l’”Avvenire”
dello stesso giorno con un articolo di Franco Cardini dal titolo “San Francesco e l’anello mancante”. Probabilmente è ancora presto per dire se il
documento ritrovato è destinato a fornire nuovi e importanti elementi di
valutazione per storici e filologi. Per noi che non siamo né l’uno né l’altro può
invece costituire uno stimolo a ritrovare Francesco stesso, un Francesco
sepolto da secoli di retorica e di buonismo, del quale forse trascuriamo con
troppa disinvoltura l’originale carica profetica e rivoluzionaria.
Pietro Urciuoli